Una finestra sul continente dei sogni: panoramica sull'America Latina

Maurizio Stefanini è un giornalista e saggista di esperienza più che trentennale. Collabora con i quotidiani "Il Foglio" , "Libero", "la Ragione" e "Linkiesta", i primi tre dalla fondazione, e con "The Global News" "EastWest", "Start Magazine" e "Longitude". Tra le varie testate con cui ha collaborato ci sono "Limes", con cui ha avuto una rubrica on line, e l'Atlante Geopolitico Treccani. Ha scritto 13 libri. Ha insegnato alla Sspa. Su richiesta si è gentilmente prestato ad una intervista per illustrare in breve la situazione politica nell’America Latina, area in cui è specializzato. Nel corso della conversazione l’intervistatore non ha resistito alla tentazione di inserire sue considerazioni e conoscenze personali, ma si spera che esse non distraggono dalle disamine articolate e corpose di Stefanini che aiutano a gettare luce su molti luoghi comuni e generalizzazioni riguardanti la regione.

Featured image: Ollantaytambo, Perù.  Source - CC 2.0

- Buongiorno, Maurizio. Dovendoci addentrare in un argomento così vasto è probabilmente opportuno cominciare da uno degli eventi più freschi per chi segue sommariamente le vicende dell'America Latina: l'elezione di Javier Milei a Presidente dell'Argentina. Il fatto che un docente di economia di ispirazione libertaria-conservatrice abbia trionfato nella patria del socialismo peronista è parso in aperta contro-tendenza con gli ultimi ballottaggi in stati come Cile, Colombia, Perù o Brasile dove si è vista l'affermazione di leader e movimenti di sinistra, in alcuni casi anche a tinte di rosso estremo. A cosa giudichi sia dovuta l'anomalia argentina?

- Non c'è nessunissima anomalia. Come ho scritto praticamente in continuazione nel commentare le ultime votazioni in America Latina l'"ondata a sinistra" è una balla sostenuta da gente che non segue le vicende della regione. In realtà, più semplicemente sta vincendo quasi dappertutto l'opposizione, qualunque essa sia. Spesso in uno scenario in cui vengono fuori outsider assoluti. Ad esempio, in Cile il ballottaggio tra Boric e Kast ha significato comunque l'emergere di due opzioni diverse e nuove rispetto alle coalizioni che si erano alternate al potere dal ritorno alla democrazia. Ma una volta che Boric è diventato presidente due referendum e un voto costituente hanno visto vittorie della destra. In Argentina il centro-destra di Macri era stato sconfitto da Fernández e Kirchner, mentre in Uruguay dopo tre mandati il Frente Amplio perdeva col centro-destra. Le elezioni di mezzo termine sono state vinte dai macristi, e alla presidenza è arrivato addirittura l'outsider più a destra Milei. In Colombia ha vinto Petro, e dopo poco più di un anno la sua coalizione è stata cancellata alle amministrative. In Ecuador ha vinto un outsider, comunque a destra. In Brasile si è passati dalla destra di Bolsonaro alla sinistra di Lula alla presidenza, anche se comunque lo schieramento di Bolsonaro si è rafforzato in Congresso. In Bolivia dopo il governo provvisorio seguito alla fuga di Morales è tornato al governo il Mas (Movimento per il Socialismo) con Mesa (nda, ex-presidente della Bolivia), che però ha poi rotto con Morales. Anche qui le amministrative successive non sono andate bene per il Mas. In Perù ha vinto un presidente di sinistra, che poi è andato in galera. Tutti i presidenti eletti in Perù dal 1985 sono finiti in galera, salvo uno che lo ha evitato suicidandosi mentre la polizia lo veniva ad arrestare. Direi che siamo nella media. Venezuela e Nicaragua confermano al potere una sinistra che però si è blindata in senso autoritario. Non è un voto più affidabile di quello che ha eletto Putin in Russia. In Paraguay pure si è confermata la destra, ma è un quadro molto clientelare. Costa Rica è andato da sinistra a destra, Honduras e Panama da destra a sinistra, El Salvador si è confermato l'outsider contro tutti Bukele, in Guatemala un altro outsider, forse in Messico si conferma la sinistra. Ovvio che se per due o tre anni la regola è che vince l'opposizione, la destra tende a vincere in referendum, amministrative e mezzo termine, mentre la sinistra vince le presidenziali. Quando poi per ovvia successione arriva un destro come Milei prende la presidenza gli analisti superficiali si meravigliano. "Oddio, che è successo?". Semplicemente, è successo che certe realtà bisognerebbe seguirle con più attenzione, prima di commentarle. (Scusa la brutalità del tono, ma in un Paese che ha trasformato in divo un cretino come Orsini bisogna essere anche brutali). 

- Un pò di secca brutalità non guasta mai. Quindi è probabile che anche l'astro di Milei sia destinato a tramontare alla conclusione della luna di miele con gli elettori ai prossimi spogli o la sua presidenza può comunque lasciare un segno per il suo paese? El Loco argentino è stato spesso paragonato a Bolsonaro dalla stampa italiana, ma leggendo i tuoi articoli questa sembra essere un'altra semplificazione, è corretto?

- Preferisco non fare previsioni. Il polemista ultra-liberista da talkshow Milei è comunque diverso dal magnate Trump e dal sindacalista militare Bolsonaro, come d'altra parte il sindacalista metallurgico Lula è diverso dal colonnello golpista Chávez, dall'ex-guerrigliero Ortega, dal leader cocalero Morales o dal professore di economia Correa. Ci sono anche differenze tra i Paesi, ovviamente. Bolsonaro, alla fine, è un tipo alla Vannacci. Milei potrebbe essere un Antonio Martino con i modi di Sgarbi. 

- Effettivamente sia Martino che Milei erano degli estimatori dichiarati dell'economista Milton Friedman e della Scuola di Chicago, le cui tesi monetariste vennero tradotte in pratica sotto il regime dei militari cileni. Secondo molti la stabilità e la prosperità (almeno per gli standard del continente) dell'odierno Cile sono frutto diretto di quel periodo aspro per quanto sia un tema molto dibattuto e controverso e l'accusa di "fascisti liberali" è sempre dietro l'angolo. Da giornalista che ha intervistato alcuni protagonisti della restaurazione democratica cilena di fine anni '80, qual è il tuo giudizio in merito?

- Milei è piuttosto eclettico, per non dire confusionario. Già, un anarchico, sia pure capitalista, che diventa presidente è una contraddizione in termini. Anche il fatto di avere invitato al suo insediamento Zelensky e Orbán in contemporanea è un segnale. Evidentemente andando avanti dovrà chiarirsi sempre di più. Però è stato eletto dal popolo, in un contesto dove ormai il modello peronista non funziona più, e per ora non ha fatto niente contro la democrazia. È molto a rischio di farlo sia perché è un personaggio aggressivo, sia perché effettivamente sta affrontando un quadro difficile con una formula appunto improvvisata, sia perché i peronisti hanno una attitudine all'ostruzionismo che appunto a un personaggio come lui potrebbe far perdere la brocca. Però, ripeto, vediamo. Anche Chávez era personaggio con chiara vocazione autoritaria, però fino a quando ha avuto risorse per acquisirlo ha avuto un consenso genuino, anche se vari arbitrii li ha fatti. Il cerino in mano è sostanzialmente restato al suo erede Maduro, che una volta rimasto senza risorse quando ha perso le elezioni ha fatto un golpe ed è diventato apertamente dittatore. Il Cile ha problemi, specie di distribuzione della ricchezza. Indubbiamente è però uno dei Paesi latino-americani messi meglio. Negli anni '70 fece da laboratorio dei Chicago Boys nel senso letterale del termine, nel senso che il primo esperimento si concluse con un disastro, che costrinse lo Stato a interventi tali per cui nel 1983 con Pinochet si arrivò a più economia sotto il controllo dello Stato che al tempo di Allende. A quel punto aggiustarono qualcosa, e fu sostanzialmente il modello creato nel 1983 che ha funzionato ed è stato portato avanti dalla democrazia. Questa però di comparare Milei a Pinochet è una fissazione che non aiuta a inquadrare. Ripeto, Milei non ha fatto un golpe, ma è stato eletto. Non ha margini per esperimenti. Se non ottiene risultati entro due anni e mezzi, già nel voto di mezzo termine va in liquidazione. 

- Un golpe vero, seppur fallito, a cui hai fatto accenno è stato quello condotto dal presidente peruviano Pedro Castillo in Perù che solo un anno prima con una coalizione di sinistra radicale aveva vinto contro la figlia dell'ex-dittatore Alberto Fujimori. Anche in quel caso la palese inesperienza del neo-capo di stato nel mantenere fede alle sue promesse e migliorare le condizioni dei ceti meno abbienti aveva portato ad una rapida disaffezione dell'elettorato che aveva poi premiato la destra alle successive comunali e spinto Castillo a sciogliere il Parlamento. Questo sembra confermare la tua posizione che però suggerisce una grande volubilità dell'opinione pubblica latino-americana che sembra passare sempre con grande semplicità da un populismo di stampo marxista ad uno più religioso e nazionalista, creando talvolta anche strani miscugli come il peronismo. La situazione è veramente così sconfortante? 

- Non è che è solo in America Latina oggi vediamo cose del genere. L'Italia per i suoi primi 133 anni di esistenza ha avuto praticamente tre regimi con tre partiti inamovibili dal governo. Prima i liberali, in un quadro di democrazia ottocentesca. Poi il fascismo, totalitario. Poi la Dc, con la democrazia repubblicana. La seconda repubblica è nata con l'obiettivo di assicurare una democrazia dell'alternanza e in effetti ci è riuscita, ma il punto è che da allora nessun vincitore è riuscito a vincere al voto successivo, e comunque non abbiamo avuto nessun governo di legislatura. Salvo forse Berlusconi tra 2001 e 2006, ma tecnicamente pure lui ha dovuto fare un rimasto. Ci sono stati due governi, anche se sempre suoi. Il Perù, ripeto, ha di particolare che i suoi presidenti finiscono regolarmente in galera. Malgrado ciò, e paradossalmente, l'economia non va male. 

- Qualche tempo fa lessi con piacere "Sciabole e Utopie. Visioni dall'America di Latina" edito da Liberilibri, una raccolta di articoli e saggi di Mario Vargas Llosa, la cui importanza nel panorama della letteratura sudamericana non è inferiore a quella di Borges, ma che al contrario di quest'ultimo non ha mai rifuggito l'agone politico. Stando a Vargas Llosa i latino-americani, con tutte le loro sfumature nazionali, sono essenzialmente un popolo di sognatori che rincorre l'infinito. Ciò gli ha permesso di donarci opere letterarie ed artistiche di grande impatto immaginifico, ma li ha resi anche molto sensibili alla retorica degli aspiranti despoti che hanno raggiunto il potere promettendo di portar loro il Paradiso. Ti senti di condividere questa analisi?

- Questo tipo di analisi sono suggestive, ma anche rischiose. Sicuramente le Americhe appartengono a una dimensione del mito che può però essere anche incubo. Terre di balli, vacanze, belle donne, utopia, ma anche povertà, dittature, malgoverno, caos. Le Americhe sono un Occidente impiantato in un altro contesto geografico, che ne ha cambiati molti connotati. Può essere il paradiso ma anche l'inferno. Però nel caso degli USA alla fine la dimensione dell'American Dream ha non solo preso il sopravvento ma ha anche prodotto la prima superpotenza mondiale, anche se vi restano zone d'ombra appunto che un europeo guarda con stupore. Ad esempio, il livello di violenza, appunto, da "Far West". In America Latina c'è effettivamente una dimensione di sogni irrealizzabili, o che se realizzati producono guai. Direi che però è più grave, ad esempio, la grande ineguaglianza delle ricchezze. È quella che genera le progenie di agitatori che per abolire i ricchi finiscono per abolire la ricchezza tout court. 

- A tal proposito il pensiero non può non correre alle nuove proteste di massa in corso in questi giorni a Cuba per la mancanza di cibo ed elettricità. La rivoluzione guidata dai fratelli Castro e da Guevara negli anni '50 aveva acceso i cuori di molti anche al di fuori dell'isola ed anche la successiva dittatura militare aveva raccolto apprezzamenti da filosofi, artisti e teorici anti-coloniali che credevano potesse essere il modello per la costruzione di una società che non lasciasse nessuno indietro. A distanza di sessant'anni è rimasta ben poca di quella speranza, soprattutto tra le fasce giovanili. Eppure il regime resiste.

- La durata dei regimi è sempre un po' un mistero. Vedi il modo in cui è crollata dopo 75 anni l’URSS e quello in cui sfida il tempo il regime Saudita. Nel caso di Cuba, c'è la valvola di sfogo dell'emigrazione, per cui la gente scontenta a un certo punto se ne va, direttamente. Ormai a livelli record. Ciò fa calare la pressione al dissenso interno. Il punto è che però il regime cubano non sembra avere la minima capacità di riformarsi in modo da diventare economicamente efficiente, tipo Cina e Vietnam. Quindi la permanenza del regime significa una distruzione continuata. 

- Anche i tentativi di Cuba di esportare la loro rivoluzione sono naufragati. Immancabilmente però ci sono coloro che imputano le ragioni di quel fallimento anche alla pressione economica e militare esercitata dagli Stati Uniti che ha soffocato sul nascere qualsiasi opportunità di sviluppo. Mi è parso di capire tu fossi parecchio scettico verso questo genere di giustificazioni.

- Mi pare che eccome se Cuba si è esportata! Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, etc., tuttora la maggior parte dei governi latino-americani è di sinistra e amico di Cuba. Sono falliti i tentativi di esportazione della rivoluzione perché Cuba era un contesto particolarissimo, e anzi la paura delle borghesia latino-americane di essere espulse come quella cubana ha portato tra i ‘60 e ‘70 ad un blindatura autoritaria che ha portato a dittature, desaparecidos e quant'altro. Ma è bastato che tra anni ‘80 e ‘90 la democrazia venisse ristabilita nel nuovo clima di fine della guerra fredda e le sinistre hanno potuto andare al potere dappertutto per via democratica, perché è ovvio che in terre di povertà diffusa e disuguaglianze se la gente capisce che può votare liberamente vota per chi promette di ridurle. Ovvio che un conto però è promettere e un conto è riuscire, una gran parte di queste esperienze è fallita. E comunque anche dove è riuscita in democrazia è fisiologico che dopo un po' ci sia ricambio. Solo che, appunto, un po' di questi governi di sinistra si sono poi blindati in chiave autoritaria, governi di destra o centro hanno fallito a loro volta, e insomma si è arrivati a questa sindrome per cui vince sempre l'opposizione per cui alla fine possono anche emergere outsider estremi alla Milei o Bukele. Sui problemi economici di Cuba, è ovvio che se ti metti a fare la guerra politica a quello che è il tuo mercato più importante problemi li hai. Però il regime castrista ha sfruttato il suo capitale di immagine e geopolitico per farsi foraggiare da una quantità di altri soggetti, in particolare col sussidio petrolifero prima sovietico e poi chavista. In linea generale, la situazione di Taiwan rispetto all'embargo di Pechino sarebbe molto peggio di quella di Cuba rispetto agli Usa. Se in questo contesto Taiwan diventa un modello di democrazia e un elemento indispensabile dell'economia mondiale per i chip mentre Cuba si trova costretta a chiedere aiuto al Programma Alimentare Mondiale in un quadro di autoritarismo galoppante, direi che dipende essenzialmente dal modello politico che ti sei scelto.

- Quindi, se ho letto correttamente tra le righe, non sono stati i regimi di destra foraggiati dagli USA a portare alla nascita della lotta armata marxista come talvolta si sente raccontare bensì l'inverso. Da lì i latino-americani sarebbero caduti in una sorta di circolo vizioso, è corretto? Quale sia stata l'origine, però, quel che a tanti sembra evidente è che l'opinione pubblica nell'America meridionale ed anche centrale abbia mantenuto per decenni una discreta avversione verso le politiche internazionali degli Stati Uniti. Avversione sicuramente fomentata anche dai governi locali. L'anti-americanismo, del resto, non è mai stata una prerogativa esclusiva della sinistra latina ed è stato abbracciato anche da politici inizialmente sostenuti dalla CIA come Manuel Noriega. Senza scordare la celebre frase del generale e dittatore messicano Porfirio Diaz che avrai studiato meglio di me. 

- L'America Latina ha una tradizione di guerre civili e guerriglie che comincia da prima ancora delle guerre di indipendenza, come ci ricorda la biografia di Garibaldi. Peraltro gli Stati Uniti in realtà sono percepiti in America Latina come potenza imperiale sostanzialmente con la guerra ispano-americana del 1898, con cui tolgono alla Spagna Cuba e Porto Rico, oltre alle Filippine. Gli Usa all'inizio della loro storia furono un Paese di grande prestigio per l'esempio della Rivoluzione Americana, ma non erano una potenza militare, ed erano concentrati nella espansione della frontiera del West. Un momento espansionista si ha tra l'indipendenza del Texas, la guerra al Messico e il tentativo di Walker in Nicaragua, che peraltro agisce da privato. Ma era per la pressione dei sudisti, che cercavano di annettere altri territori schiavisti per poter riequilibrare il peso del Nord. Dopo la sconfitta sudista nella Guerra Civile finisce, e gli Usa si concentrano appunto nel completare la conquista del West. A fine '800 vengono contagiati dalla moda imperialista, appunto con la guerra alla Spagna del 1898 e con il colpo su Panama del 1903. Inizia un processo di espansione di influenza che viene a scontrarsi con la influenza inglese, che è stata la potenza egemone nell'area dopo l'indipendenza da Spagna e Portogallo. Il golpe repubblicano che nel 1889 pone fine alla monarchia in Brasile può essere letto come passaggio di potere da una élite di produttori di zucchero filo-inglese a una di produttori di caffè e allevatori filo-Usa, e anche la guerra del Chaco vede il Paraguay legato alla inglese Shell e la Bolivia alla americana Standard Oil. Sostanzialmente è tra Prima e Seconda Guerra Mondiale che Londra sgombera, nell'ambito del più generale processo di smantellamento dell'Impero. è dal 1945 che gli Usa diventano la potenza "imperiale" in tutta la regione. La differenza tra l'area di America Latina dove è più popolare il calcio o il baseball è una sorta di traccia geologica di quelle che erano più o meno le aree di influenza inglese e americana tra 1890 e 1945, quando si afferma il tifo di massa. La stessa Dottrina di Monroe era semplicemente un appoggio diplomatico alla linea inglese di appoggio alle indipendenze dalla Spagna da parte di un Paese di potenza militare allora quasi nulla. Gli Usa avevano una grossa possibilità di costruire macchine da guerra poderose come si vide nel 1848 o con la guerra civile, ma l'opinione pubblica era refrattaria a pagare tasse per mantenere macchine militari potenti e permanenti. Sostanzialmente è dall'ultima decade dell'800 che gli Usa diventano potenza militare permanente. Poi in America Latina hanno proiettato una immagine imperialista degli Usa retrospettiva, ma non è una cosa più storica ad esempio della costruzione di austriaci e tedeschi come nemici dell'Italia fatta durante il Risorgimento, e che dimenticava come ad esempio i Savoia erano stati più spesso alleati all'Austria che alla Francia. In realtà gli Usa erano stati considerati antesignani e esempio della guerra di indipendenza latino-americana e tutte le costituzioni latino-americane sono state ispirate al modello Usa, non a quello europeo. “Ariel" di José Enrique Rodó nel 1900 e la "Ode a Roosevelt" di Rubén Darío nel 1904 sono due opere letterarie che possono essere considerate il punto di inizio dell'anti-americanismo latinoamericano, che peraltro negli anni '30 fu chiaramente tentato dal fascismo, come mostra la storia del peronismo. Il matrimonio tra marxismo e nazionalismo latino-americano nasce con la Guerra Fredda, e peraltro ha un riscontro nella tentazione di certi interessi Usa a giustificarsi con l'anticomunismo. L'operazione in Guatemala nel 1954 per proteggere gli interessi delle United Fruit è più o meno seminale nell'idea di affrontare gli Usa con la lotta armata. Peraltro in contraddizione con quella che era stata la linea generale della CIA di prevenire il comunismo promuovendo il riformismo: l'appoggio alla Rivoluzione Boliviana nel 1952 e alla riforma agraria di Frei in Cile nel 1964, equivalenti alle riforme agrarie appoggiate in Italia o Giappone. Dal Guatemala Cuba, da Cuba la paura delle borghesie latino-americane, da qui lo scontro tra guerriglie e golpe. Va però sottolineato che gli Usa smettono di appoggiare golpe con Carter, e con Reagan iniziano ad avere un ruolo attivo nel provare a ripristinare democrazie. Dopo la fine della guerra fredda, col nuovo millennio, come ricordato, c'è una ondata a sinistra, che però a volta svolta in chiave autoritaria. C'è una chiara influenza di Cuba, e poi di Russia, Cina e Iran. Ovvio che, come negli anni 60, ciò rischia di provocare per reazione un autoritarismo opposto.    

- Va' riconosciuto per onestà intellettuale che non tutti i tentativi si sono conclusi negativamente. Per tornare nell'ambito dell'onda rossa del ventunesimo secolo in Bolivia il governo di Evo Morales ha ottenuto dei risultati notevoli nella riduzione della povertà senza sacrificare lo sviluppo economico del paese ed è probabilmente la ragione per cui il suo ex-ministro dell'economia Luis Arce è stato eletto Presidente con un ampio margine dopo la momentanea fuga del suo predecessore a Cuba. Anche il capo di stato dell'Ecuador Rafael Correa, che aveva aperto le porte della sua ambasciata a Julian Assange indispettendo non poco gli Stati Uniti, ha scelto di non cercare il terzo mandato nonostante il consenso di cui godeva. E' curioso, però, come in seguito sia Correa che Morales siano entrati in aperto contrasto con i nuovi dirigenti dei loro partiti. Ritieni che si tratti di un dissidio principalmente ideologico o può esserci anche un fattore personalistico?

- Non è questione di onestà intellettuale. Ho scritto parecchio sui buoni risultati economici della Bolivia di Morales e dell'Ecuador di Correa, ed ho pure chiesto parecchio su questo dato. Alcuni intervistati mi hanno detto che questi dati positivi in realtà sarebbero stati solo propaganda. Altri mi hanno dato spiegazioni, che più o meno confermano le idee che mi ero fatto io. Chávez, Morales e Correa sono stati alleati, hanno condiviso una certa retorica, il secondo e terzo hanno copiato il modello istituzionale creato dal primo, e hanno anche condiviso il principio di una grossa redistribuzione degli utili di idrocarburi gestiti da una impresa di stato. Però l'economia del Venezuela è molto più dipendente dal petrolio che non quella dell'Ecuador dal petrolio o della Bolivia dal gas. In Ecuador e Bolivia c'è una diffusa piccola proprietà contadina anche coincidente con la popolazione indigena, ci sono forti settori di agro-industria ad esempio nel dipartimento boliviano di Santa Cruz nell'export ecuadoriano della banana, in Bolivia ci sono anche la coca e altre miniere. Chávez ha avuto dunque la tentazione di distruggere la borghesia produttiva locale con la concorrenza di reti di distribuzione statale che vendevano sotto costo. Fino a quando calo dei prezzi e della produzione, la prima per eventi indipendenti dal Venezuela ma la seconda per la inefficienza del regime, non hanno reso impossibile continuare a finanziare la rete di distribuzione statale, quando quella privata era già stata distrutta. Il regime ha cercato di ovviare stampando soldi, e così ha creato una inflazione tremenda. Da qui la perdita di consenso, che ha affrontato in termini di involuzione autoritaria sempre più marcata, che ha peggiorato il quadro ulteriormente. Morales e Correa non hanno seguito questo percorso perché non ne avrebbero avuto risorse sufficienti, quindi il semplice pompare potere di acquisto nella popolazione ha creato domanda che ha beneficiato l'economia locale. Poi Morales ha avuto in Arce un buon ministro dell'economia e Correa è lui stesso economista. L'Ecuador poi è dollarizzato e non si può creare inflazione. Correa ha trovato questa situazione e la ha lasciata. In Bolivia non c'è questo limite tecnico ma ce ne è uno psicologico, per il ricordo della micidiale inflazione innescata dal governo di sinistra degli anni '80. Ha pure funzionato. Altra differenza: Chávez era un militare che ha legato i militari al regime dando loro privilegi, cosa che non è stata in Bolivia e Ecuador, che dunque hanno più difficoltà ad arroccarsi in chiave autoritaria. C'è l'ulteriore differenza che Morales è leader del movimento sociale dei cocaleros, mentre Correa non ha a sua disposizione un movimento altrettanto strutturato. Insomma, finiti i mandati concessi della Costituzione Correa non ha provato a forzare una modifica per ricandidarsi, ed ha passato al suo delfino Moreno, che però quando le vacche grasse sono finite ha pensato bene di scaricare le colpe su di lui. Morales invece ci ha provato, ma, senza appoggio dell'esercito ha dovuto scappare. A quel punto però prima delle nuove elezioni la vecchia opposizione ha governato un anno, al termine del quale per la sindrome descritta è stato eletto Arce, visto che appunto Morales non poteva ricandidarsi. Arce non ha fatto da mero prestanome, da cui la rottura tra i due. 

- Proprio Arce secondo me è il personaggio più curioso tra questi. Come riportato in un tuo articolo biografico, pur essendo di orientamento socialista ha lavorato sotto amministrazioni di stampo neo-liberale e da ministro si è mosso in maniera molto pragmatica per bilanciare ridistribuzione e produzione. Sulla politica internazionale, invece, il suo governo sembra restare fedele al vecchio asse "anti-imperialista" vicino a Cina, Russia e simpatetico alla causa palestinese. Certo, non ha raggiunto i livelli di Lula che è riuscito a farsi dichiarare persona non grata da Tel Aviv dopo aver paragonato le loro azioni a Gaza con quelle di Hitler. E Bolsonaro ha subito colto la palla al balzo organizzando manifestazioni di protesta con la bandiera di Israele. 

- Tutta una situazione in evoluzione continua. Adesso, ad esempio, anche Lula è furibondo con Maduro. O mostra di esserlo. Maduro ha insultato lui e Petro come “sinistra codarda” e “servi del Dipartimento di Stato” per prudenti note di critica dei Ministeri degli Esteri all’esclusione di Corina Yoris. In una conferenza stampa congiunta a Brasilia, al termine della visita di Stato di tre giorni di Macron, Lula ha definito “grave” l'esclusione del candidato designato dalla leader dell'opposizione María Corina Machado per affrontare Maduro il 28 luglio. “Non c'è alcuna spiegazione giuridica o politica” per cui non ha potuto farlo, ha detto Lula, che si è detto "sorpreso" dalla notizia. Macron, dal canto suo, “ha condannato con molta fermezza l'esclusione di una candidata seria e credibile” e ha esortato a “ripristinarle” la possibilità di partecipare alle elezioni. Lunedì il Venezuela ha chiuso il periodo di registrazione dei candidati senza che la principale coalizione di opposizione, Piattaforma Unitaria Democratica, sia riuscita a registrare la sua portabandiera Corina Yoris. L'accademica ottantenne non ha potuto accedere al sistema di registrazione, che secondo la Pud è stato bloccato. Dopo aver constatato questa impossibilità, la principale alleanza dell'opposizione venezuelana è riuscita a registrare un altro candidato provvisorio, Edmundo González Urrutia. Nel frattempo Maduro, che spera di rimanere al potere per 18 anni, ha registrato lunedì la sua candidatura. Sì, Arce è uno straordinario tipo di economista ortodosso ma legato alla estrema sinistra. Morales era il volto e lui quello che gestiva effettivamente. Il potere ha scavato un abisso tra lui e Morales. Sì, c'è un duello durissimo tra due ex-amici però per ora ancora d'accordo su collocazione internazionale e vocazione autoritaria con l'opposizione. Solo che adesso ce l'hanno anche a vicenda. Morales ha fatto cacciare Arce dal partito, Arce ha fatto inabilitare Morales dalla candidatura. 

- In questo perenne intricarsi di scontri ed allineamenti come valuti la condizione dei BRICS (l'organizzazione di potenze non occidentali emergenti di cui il Brasile è membro fondatore) con il ritorno di Lula? Hai scritto di non volerti comprensibilmente sbilanciare in previsioni, ma analizzando il loro stato attuale ritieni abbiano buone possibilità per creare un polo economico alternativo alla così detta "tirannia del dollaro"? Quanto pensi ci creda Lula, giudicando le sue azioni negli anni passati?

- I BRICS sono una di quelle realtà su cui la mia opinione è evoluta nel tempo. Non in senso positivo. In origine, ne parlai con interesse. Feci addirittura una serie sul “Foglio" a essi dedicata, su incarico di Ferrara. In seguito però ne ho scritto meno positivamente. In linea generale, io sono favorevolissimo al Sud del mondo che si organizza per conto suo per contare, anche in chiave polemica con l'Occidente. Ma se la chiave polemica consiste in una promozione di modelli autoritari, preferisco la democrazia occidentale. I BRICS in pratica sono un anti-G7 da parte di potenze che ne stanno fuori. La Russia stava nel G8, ma come Mussolini rinunciò al seggio permanente al Consiglio di Sicurezza della Società delle Nazioni, grande risultato dell'essere stati tra i vincitori della Grande Guerra, per l'effimero impero etiopico, anche Putin ci ha rinunciato per prendersi la Crimea. È però più debole del G7, essenzialmente per la eterogeneità ideologica tra tre democrazie con problemi, una autocrazia con maschera democratica e una autocrazia proclamata. Per non parlare dei contrasti tra Cina e India, che ogni tanto si sparano addosso. Con la guerra in Ucraina e le ultime adesioni i BRICS stanno accentuando un carattere di club anti-occidentale, moltiplicando le loro adesioni. Ma rischiano di diventare un doppione dei Non Allineati, che non è che brilli per incisività. L'ultimissimo improvviso scontro tra Lula e Maduro sul divieto di iscrizione a candidato in Venezuela, mentre la Cina invece dà a Maduro appoggio, indica che il ruolo sempre più spregiudicato di Cina e Russia nel promuovere processi di involuzione autoritaria in tutto il mondo alla fine non è che non può essere visto con allarme nella stessa sinistra brasiliana, perché se in America Latina inizi a stabilire che la democrazia non è un dato intoccabile ci mettono poco a tornare i golpe di destra, senza considerare che comunque 7,1 milioni di profughi dal Venezuela sono un oggettivo fattore di destabilizzazione. La banca dei BRICS si presenta effettivamente come una alternativa a FMI, Banca Mondiale e simili, ma non credo che nel lungo e anche medio periodo potrà finire per finanziare pozzi senza fondo. Là poi quelli che hanno soldi sono i cinesi, e si sa cosa è la trappola del debito cinese. Più in generale, una alternativa al dollaro può essere costruita da un'altra moneta. Già c'è l'euro, ed ha problemi. Primo, perché la BCE a differenza della Fed non è espressione di un governo solo, ma di tanti. Secondo, perché l'euro non è riuscito ancora ad acquistare quel valore psicologico di moneta di riserva che il dollaro mantiene pure con politiche inflazionistiche. Per questo la BCE si tiene fissa su politiche restrittive da cui le note polemiche. Ci immaginiamo i BRICS in grado di creare un anti-dollaro più efficiente dell'euro? Francamente, non ne vedo i presupposti. 

- In effetti se un gruppo di democrazie trova difficoltà enormi a fidarsi l'una dell'altra risulta difficile che delle dittature ci riescano. Grazie molte.

Featured image: Ollantaytambo, Perù.  Source - CC 2.0

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